Scheda critica
«Nei chiostri, davanti ai frati che leggono, che ci fanno quei mostri ridicoli, quelle così
belle deformità e quelle bellezze deformi, quelle scimmie immonde, quei leoni feroci,
quei centauri mostruosi, quegli esseri subumani, quelle tigri maculate?
[…] Qui vedete tanti corpi con una sola testa, là molte teste con un solo corpo, più in là vedete un quadrupede con la coda di serpente e altrove un pesce con la testa di quadrupede.
Qui c’è un animale la cui parte inferiore rappresenta un cavallo e il resto una capra, là c’è una bestia cornuta con la groppa di un cavallo»
Bernardo di Chiaravalle, Apologia ad Guillelmum Sancti Theodorici abbatem, cap. XII)
Quelle ridicula monstruositas, mira quaedam deformis formositas, ac formosa deformitas, censurate e così pesantemente apostrofate da San Bernardo di Chiaravalle nel XII secolo, impregnano e vivificano ancora il Museo di Storia Innaturale di Dario Ghibaudo. A prescindere dalle dispute teologiche e politiche tra l’ordine cluniacense e quello cistercense, al quale Bernardo apparteneva, è palese, nelle sue parole, un atteggiamento quantomeno ambivalente sul potere delle immagini e sul loro uso: insieme di repulsione e di attrazione, nella consapevolezza della loro natura seduttiva, capace di evocare le deformità, di raffigurare gli abitanti di un altrove al contempo mentale e fisico, di concretizzare visivamente la dimensione straniante e incombente dell’irrazionale, dei monstra che abitavano il “medioevo fantastico” e che, ancora, accompagnano, l’immaginario contemporaneo.
Sono oltre trent’anni che Dario Ghibaudo percorre tali territori, vi si nutre e, allo stesso tempo, li feconda con una prassi operativa che fa convivere il massimo dell’irrazionalità con la razionalità straniante di un progetto dal carattere enciclopedico e “scientifico”, in continuo divenire, teso a catalogare, a registrare e rendere sistematico un mondo, quello della “meraviglia”, agli antipodi da tale prassi operativa, con una coerenza e una prospettiva progettuale di così lunga durata rara se non unica nel panorama artistico contemporaneo.
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È dal 1991 che Ghibaudo ha iniziato a dare forma al suo Museo di Storia Innaturale, strutturandolo col rigore illuministico – se tale termine non fosse ironicamente ossimorico – di un vero e proprio museo di storia naturale di stampo settecentesco. Il progetto è articolato in Sale, virtuali e reali, deputate a ospitare e compartire, idealmente, le diverse branche, a oggi venticinque, che spaziano dall’Antropologia all’Entomologia, dalla Botanica agli Esseri mutanti e agli Esemplari rari, dall’Etnografia all’Anamorfosi, per citarne alcune. Al loro interno compaiono esseri ibridi e mutanti, ibridati da processi metamorfici fisici e culturali in fieri, autenticati e, pertanto, certificati dall’artista demiurgo che li battezza con nomi in latino, rigorosi e icastici nel descriverne le peculiarità quanto ironici e corrosivi verso l’assertività degli stessi processi scientifici: Hippotragus anteropostus spinatus, Antilocapra varicruris longicaudata, Avis canidi horroficati, Octopus caput avis, Capronis sexpedatus cum cauda pisciorum – solo per ricordarne alcuni e diversi dei quali presenti in mostra nello spazio CEDAP per il museo d’arte contemporanea Organica – spesso accomunati da una comune coda di pesce, omaggio e, insieme, sberleffo alle teorie scientifiche che vorrebbero l’origine della vita sulla terra in ambiente marino.
Ma se tale sistema classificatorio rende credibile il meraviglioso, è la prassi scultorea dell’artista a sostanziarlo visivamente. Ghibaudo è scultore nel senso classico del termine e i suoi paradossi biomorfici si concretizzano grazie a una conoscenza approfondita della grande tradizione tecnico-formale della scultura del passato, da quella ellenistica, alla ritrattistica romana, dalla visionarietà grottesca della plastica romanico-gotica, al rilievo quattrocentesco di ambito toscano, dal virtuosismo manierista e barocco fino alle patinate finiture della statuaria neoclassica e che, negli anni, lo ha visto sperimentare tutte le possibilità espressive dei diversi materiali: marmo, bronzo, porcellana, ceramica, pietra, cemento, resine e plastiche riciclate.
Tale cura maniacale della forma, al limite del virtuosismo, non è mai fine a sé stessa, è parte di un processo alchemico di trasformazioni e mutazioni necessario a rendere “credibile” e, pertanto, depistante e straniante, alieno e familiare, il mondo visivo di Dario Ghibaudo. Per Achille Bonito Oliva (2022) tale processo metamorfico «è possibile perché nell’opera regna il potere del linguaggio, che tramuta a propria immagine e somiglianza qualsiasi sembianza. Si mette al servizio di tale mutazione, lavora alacremente, seguendo ferreamente la regola del prelievo e dello spaesamento, dello spostamento e della condensazione, per costruire trappole per lo sguardo».
Le trappole visive dell’artista agiscono pertanto a più livelli e scattano nel momento in cui lo sguardo rimane imbrigliato dall’immagine, sedotto dalla sua “naturalità” che, nelle singole parti, si manifesta in piedi e gambe umane al contempo maschili e femminili, travalicando generi e identità, protomi animali variamente modificati eppure, anch’esse, familiari, code, corna ed escrescenze che rimandano a un rassicurante deja vu, ma che, ricomposti e variamente ricombinati, ci portano a un punto di non ritorno e, «dopo l’iniziale corteggiamento, l’attenzione dello spettatore è oramai prigioniera dell’immagine, arresa al potere di una familiarità che è riuscita a tramutarsi in estraneità, a sopportare una metamorfosi»: un vero e proprio rituale di fascinazione che ricorda quello, fatale, delle sirene omeriche o le malie di Circe, fata dell’ingegneria genetica ante litteram.
Non stupisce che il Museo di Storia Innaturale di Ghibaudo sia stato associato a un altro grande contenitore di sogni, incubi e bellezze deformi, il Treasures from the Wreck of the Unbelievable di Damien Hirst. L’immensa wunderkammer allestita dall’artista inglese – tra inneschi letterari o presunti tali, miti passati e leggende contemporanee, storia dell’arte e cultura pop, sfarzo esibito e sconfinamenti trash – è, insieme, un continuo rimando tra realtà e finzione, ambivalenza tra vero e verosimile, favola che racconta le potenzialità infinite del fare artistico e la realtà ben più concreta della frenesia del mercato dell’arte e dell’arte come shopping, del quale, peraltro, egli stesso è attore protagonista.
Di tutt’altra natura è l’approccio di Dario Ghibaudo. Per l’artista piemontese, il suo museo – decisamente antecedente e di ben più ampia durata cronologica rispetto ai treasures di Hirst –rinunciando all’ostentato citazionismo di quest’ultimo, alla sua ridondanza cromatica e valoriale dei materiali usati in favore di quel biancore canoviano che tutto omogeneizza e rende astratto e concettuale, si pone come critica lucida e spietata ai modelli di sviluppo contemporanei. Modelli superabili solo con gli anticorpi dell’ironia e del distacco emotivo, nell’ipotesi di mondo futuro fluido, aperto alle manipolazioni dell’acido desossiribonucleico della fantasia e dominato dal meticciato (non solo culturale), dalla contaminazione, dall’ibridazione e dalle virtù taumaturgiche di quelle fascinose deformis formositas, ac formosa deformitas tanto invise a San Bernardo.
Biografia
Dario Ghibaudo è nato nel 1951. Vive e lavora a Milano ed è tra i fondatori del Concettualismo Ironico Italiano, corrente artistica nata in Germania all’inizio degli anni Novanta. La sua ricerca artistica si articola nel grande e originale progetto del Museo di Storia Innaturale – a cui l’artista lavora dal 1990 in continuo accrescimento – strutturato come un museo di storia naturale di stampo settecentesco, per la realizzazione del quale utilizza media diversi: dalle resine, alla porcellana, dai materiali sintetici alle pietre, marmo, cemento e papier mâché.
Disegnatore instancabile, i suoi inchiostri, anche di grandi dimensioni, nascono tracciati su carta direttamente col pennino, senza disegno preparatorio.
Sue opere si trovano in importanti collezioni pubbliche e private in Italia e all’estero, tra cui Château d’Oiron (F), Kunstmuseum di Stuttgart (G), Mart di Rovereto, Armenian Center for Contemporary Experimental Art di Yerevan (ARM), Collezione Vaf Francoforte (G), Fondazione Igav di Torino e Collezione La Gaia di Busca, Cuneo.
Intervista
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